“Vedde il gran cacciator; comprese, quanto è possibile e dovenne caccia; andava per predare e rimase preda questo cacciator […].”
(Giordano Bruno, De gli eroici furori, 1585)
Per gli antichi greci il mito costituiva un racconto, originariamente una narrazione orale, in grado di spiegare i misteri del mondo e di definire le relazioni tra gli dei e gli uomini: un tentativo di dare delle risposte ai quesiti fondamentali che l’uomo si è posto e che continua a porsi. Per questa ragione la mitologia ha offerto, nel corso dei secoli, un’affascinante materia per la speculazione intellettuale: poeti, letterati, pittori, scultori, filosofi, psicologi, musicisti, cineasti, un po’ tutte le categorie di artisti e non, si sono cimentati nella rappresentazione del mito, offrendocene una loro personale visione.
Il mito si pone come un substrato psicologico primigenio ed ancestrale, un’inquietante e seduttiva catena di nascita, morte, sessualità, sangue, metamorfosi, vendetta e gelosia.
Nel terzo libro de Le Metamorfosi Ovidio ci narra della tragica vicenda del giovane Atteone, nipote di Cadmo fondatore della città di Tebe. Durante una battuta di caccia l’eroe tebano, addestrato all’uso delle armi dal centauro Chirone, si perse in un bosco ,a lui sconosciuto, con i suoi fedeli cani. Il destino condusse Atteone in una radura dove vi erano una grotta e un laghetto dall’acqua limpidissima. Qui Diana, la vergine dea della caccia, stava bagnando il suo corpo con l’aiuto delle sue fidate ninfe. Atteone posò il suo sguardo sulle nudità della dea che, adirandosi per l’oltraggio subito, gli spruzzò sul volto dell’acqua trasformandolo, così, in un cervo. Da cacciatore Atteone divenne preda dei suoi stessi cani che, vedendolo animale, lo sbranarono in mille pezzi.

Parmigianino, decorazione della saletta segreta della Rocca dei conti Sanvitale a Fontanellato, lato ovest, 1524
Questa vicenda fu ripresa più volte, sia in pittura che in letteratura, caricando il senso del racconto di significati assai lontani dalla versione originale.
Da Petrarca che nel Canzoniere assunse le vesti del giovane eroe per testimoniare il suo amore per Diana (ove si cela Laura), a Boccaccio che ne La caccia di Diana si servì del mito per celebrare in chiave mitologica alcune gentildonne napoletane, fino a Giordano Bruno che in De gli eroici furori utilizzò la narrazione ovidiana per affermare l’amore come metodo di conoscenza. Il mito si rivela così come qualcosa di non univoco: un’immagine che viene caricata di interpretazioni tanto diverse, quanto diverse sono le intenzioni dell’osservatore.
Anche nella rappresentazione pittorica la leggenda di Diana e Atteone conobbe varie versioni, versioni differenti a seconda dell’epoca, ma anche della particolare sensibilità dell’artista: dal semplice utilizzo del mito in chiave erotica, a quello più complesso che si spinse a compiere una riflessione profonda sul destino dell’uomo, costretto a soccombere ad elementi che non è in grado di contrastare.
Fu soprattutto a partire dal Cinquecento che il bagno di Diana con le ninfe divenne un buon pretesto per esibire nudi femminili in paesaggi arcadici.
“[…] Mentre Diana si bagnava così alla sua solita fonte, ecco che il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia, vagando a caso per quel bosco che non conosceva, arrivò in quel sacro recesso: qui lo condusse il destino. Appena entrò nella grotta irrorata dalla fonte, le ninfe, nude com’erano, alla vista di un uomo si percossero il petto e riempirono il bosco intero di urla incontrollate, poi corsero a disporsi intorno a Diana per coprirla con i loro corpi; ma per la sua statura, la dea tutte le sovrastava di una testa. Quel colore purpureo che assumono le nubi se contro si riflette il sole, o che possiede l’aurora, quello apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste.[…]”
(Ovidio, Le Metamorfosi, libro III)
Alla semplice raffigurazione del nudo, in molti casi, si univa una certa perversione voyeuristica: l’atto dello spiare di Atteone venne esaltato in maniera quasi morbosa; il vedere non guardati una persona nella sua più completa e totale intimità.
Parmigianino, nella superba decorazione della “saletta segreta” della Rocca dei conti Sanvitale a Fontanellato, Tiziano, Cranach, Rembrandt, Tiepolo, Veronese, e molti altri ancora si cimentarono nella raffigurazione di questo episodio tralasciando, il più delle volte, la parte più sanguinaria e cruenta dell’evento.
Pian piano il mito cessò di alimentare la fantasia degli artisti, sostituito da argomenti più attinenti con la vita a loro contemporanea. Ma il mito rappresenta un archetipo fondante dell’uomo e non sparisce del tutto, permanendo come principale forma culturale di riferimento presente se pure, a volte, non immediatamente riconoscibile.
Nel XX secolo un poeta ed una pittrice riesumarono questo mito nell’ottica di una più generale rivisitazione della nostra tradizione culturale. Ezra Pound nei suoi Cantos riprese il mito di Diana e Atteone convinto com’era che il presente si potesse meglio comprendere guardando passato e, in particolar modo, a quel patrimonio eterno ed universale tramandatoci dagli antichi: poema sconfinato ed esaltante che traccia la nostra storia di uomini.
“Atteone,/ In una valle folta di foglie/ La foresta rigetta il sole che abbaglia […]/ Né raggio, né scheggia di sole,/ né un disco di bagliore solare/ Percuote le acque scure,/ Né spruzza sulle ancelle, bianche, intorno a Diana/ Che fa di clarità l’aer tremare,/ arruffando lor chiome […]/ I molossi brancan Atteone,/ Cervo maculato silvano;/ Le trecce, grevi/ come fascio di grano, lampeggiano,/ I cani sbranano Atteone,/ Cervo maculato silvano […]”
(Ezra Pound, Cantos, 1916-1934)
Nel 1946 Frida Kahlo si spinse a riflettere se stessa in questo mito, interpretando la parte del cacciatore divenuto preda: il cervo ha il volto della donna, il corpo trafitto da nove frecce come quelle di San Sebastiano. In questo caso il mito diviene un pretesto per ribadire la dimensione di solitudine e tristezza esistenziale di Frida: un piccolo cervo ferito a cui è stata tolta qualsiasi illusione di felicità.
“Sono un piccolo cervo che vive nelle montagne.
Poiché sono selvatico, non scendo a dissetarmi durante il giorno.
Di notte, a poco a poco, vengo tra le tue braccia, amore mio.”
(canzone popolare messicana)
